Quanto umani siamo nel parlare di accoglienza?

E’ con questa domanda, intorno a parole sfumate come ‘umani’ e ‘accoglienza’, che si forma ed evolve l’esperienza artistica del fotografo e Visual Artist veneto Giulio Favotto. 

Un percorso che ha preso vita con il progetto fotografico ‘Carne da macello’, quando Favotto decise di  seguire l’arrivo nel suo paese d’origine, Castelfranco Veneto, di 21 ragazzi “ospitati per qualche giorno in un ex collegio, poi espulsi, accolti in alcune palazzine, poi cacciati dagli abitanti, alloggiati in palestre, ammassati in caserme, ex b&b, strutture di fortuna, affidati a cooperative nate tre giorni prima, trasferiti a Roma, a Trieste…” , racconta l’artista nella presentazione del progetto.

“Quanto umani siamo nel parlare di accoglienza?”

Giulio Favotto, in mostra a Castelfranco Veneto
Giulio Favotto, in mostra a Castelfranco Veneto

Prima di imbarcarsi in questa avventura per lui ‘accoglienza’ significava ‘magia’: “I racconti dei viaggi di amici, i nostri viaggi, parlano di luoghi magnifici, della ricchezza della diversità e dell’inaspettata magia che l’accoglienza di persone lontane, sconosciute, spesso povere, ci ha regalato”. Ma nei tre anni che Favotto ha passato a seguire questi 21 ragazzi la parola accoglienza, da amica che era, si è trasformata assumendo significati nuovi: “Ho capito che senza una cura rispetto ai termini ‘modo, sentimento, manifestazioni con cui si riceve’ non si dà vera accoglienza.

Che senza una mediazione culturale mirata all’autonomia e all’integrazione, è un’accoglienza sterile, che non porta all’indipendenza ma a nuove dipendenze. Che ammassare e ghettizzare genera convenienza per chi fa accoglienza, non per chi la riceve. Che esperienze di accoglienza diffusa esistono, costano fatica, ma funzionano. Che uno stato è Stato se studia strumenti per gestire un problema, che trova nell’illegalità soluzioni di legalità, non se ignora, rifiuta, delega o ne fa miope strumento di propaganda”.

Giulio Favotto, in mostra a Castelfranco Veneto
Giulio Favotto, in mostra a Castelfranco Veneto

Da queste riflessioni è nato il progetto ‘Carne da macello’: fotografie e installazioni video che danno voce a questa accoglienza che accoglienza non è mostrando pezzi di ragazzi – una mano, un braccio, un volto – provenienti da Africa, Bangladesh e Pakistan accostati a pezzi di carne, come dice il titolo, da macello. Un accostamento forte e immediato che non nasconde, non allude ma mostra senza palliativi, con tutta la forza di cui l’arte può essere capace, lasciando allo spettatore come unica possibilità quella di prendere atto. 

Un progetto, questo, che di strada ne ha già fatta tanta e ne farà ancora: la sua storia è iniziata proprio a Castelfranco Veneto, tra le vie del centro e il laboratorio della macelleria Targhetta. Poi Favotto e le sue fotografie sono approdati a Padova, dove il lavoro in una versione ampliata è stato ospitato negli spazi della Cattedrale Ex Macello della città. L’ultimo ‘episodio’ di questo viaggio nella ‘non accoglienza’ sarà a Milano, dove ‘Carne da macello’ sta aspettando di essere esposto in altre sedi.

Giulio Favotto, in mostra a Padova
Giulio Favotto, in mostra a Padova

Nel frattempo Favotto sta lavorando a un altro progetto, altrettanto evocativo, dal titolo ‘Alba’: un’installazione video realizzata all’interno di una vasca di cemento presso un ex Depuratore dell’acqua di Castelfranco Veneto e ispirata ai racconti dell’attraversamento del Mediterraneo di Lamine Tourè, che porta i visitatori a osservare un’alba da un gommone. Un percorso artistico che è un omaggio a “tutte le storie di non accoglienza, mascherate come accoglienza, che non ho potuto mostrare e raccontare. Chiedendomi quanto umani siamo nel parlare di accoglienza?”.