L’intervista di Not Yet alla fotografa dei grandi della musica italiana Chiara Mirelli, capace di raccontare con i suoi scatti la persona oltre l’artista

Chiara Mirelli, nota nel panorama artistico italiano per i suoi ritratti fotografici di celebri musicisti italiani, da Salmo ai Ministri, dai Bloody Beetroots ai Subsonica, non è solo fotografa d’arte ma fan prima di tutto.

Classe ’76, vissuta e cresciuta professionalmente per lo più a Milano, da dove ha attinto ispirazione per l’immaginario visivo dei suoi progetti, ha fatto della sua passione-ossessione per la musica e il mondo dei concerti una vera vocazione, raccontandola però nel suo lato più umano e spoglia dagli artifizi di un’industria spesso artefatta. Un uso sapiente di luci e ombre, di un modulato chiaroscuro e di grigi tenui, ha reso le narrazioni visive di Chiara un’esplorazione umana nello sguardo dell’artista, nudo, esposto, stanco, lontano dalla grazia e dalla forza della performance e del palco.

È stata proprio lei a raccontarci la sua esperienza attraverso un’intervista.

Chiara Mirelli 2020, foto di Alessandra Lanza.

Le tue opere sono per lo più in bianco e nero, puoi spiegarci il perché di questa scelta artistica? 

Prima di intraprendere la scuola di fotografia, avevo fatto un corso di stampa in bianco e nero in camera oscura e sono rimasta legata a questo elemento. È la mia passione, è elegante. Basta un fondo grigio, una luce correttamente dosata e la foto è già bellissima. Il colore non è il mio linguaggio, io preferisco esprimermi con pochi elementi. Ovviamente molti committenti, quali giornali o lo stesso Instagram, mi richiedono l’uso del colore, ma per me risulta un po’ forzato. Riesco a lavorare meglio con i grigi e con le ombre, quindi, quando ne ho la libertà tendo a prediligere il bianco e nero e a utilizzarlo per tutti i miei scatti personali. Alle volte questa scelta mi avvantaggia: magari il lavoro non è fantastico o il soggetto è vestito male, ma se giro lo scatto in bianco e nero diventa fantastico, dona un’aria da backstage alla foto e dà risalto a tutte le tonalità di grigio. 

Salmo durante il suo Flop Tour, foto backstage di Chiara Mirelli.

Cosa ti ispira maggiormente per dare vita ai tuoi lavori?

La mia maggiore ispirazione sono sempre stati i festival: sono andata a tantissimi festival di fotografia. Ho cominciato dalle piccole realtà italiane che mi potevo permettere, quale Savignano, per poi approdare al festival di fotografia di Arles. Era come una festa. Ogni anno a luglio, andavo con tutti i miei amici fotografi ad Arles dove era possibile trovare un po’ di tutto: dalla fotografia d’autore, ai ritratti, al reportage. I tuoi occhi si dovevano abituare alle cose belle: libri, mostre, gallerie, festival. Lì si riunivano grandi fotografi da tutto il mondo: li incontravi al bar a prendere il caffè o a fare aperitivo, o la sera alla proiezione. Erano sempre gite d’ispirazione: andavi e cercavi di interiorizzare ogni elemento interessante, dall’installazione, al materiale delle stampe, alle cornici. Non basta guardare Instagram: solo vedendo un allestimento di persona ti possono venire idee sull’impaginato, sulla sequenza, sulle dimensioni delle foto. Poi c’era il Festival di Cortona, anche quello molto importante, che è esattamente la settimana dopo Arles. Facevamo la doppietta. A settembre, invece, c’era il Festival di Internazionale a Ferrara con proiezioni di film-documentari dalla fotografia bellissima. Era tutto un accrescere di visione. Per non parlare poi dei festival musicali, essendo io una fotografa di musica, o dei festival della piccola editoria che raccoglievano le piccole case editrici fotografiche, poco conosciute ma sempre straordinarie. Non andavo mai in vacanza, investivo tutti i miei soldi per andare ai festival, linfa per il mio cervello. Un’altra grande ispirazione sono sempre stati i libri, le pubblicazioni di fotografia o le fanzine che sfogliavo da 10 Corso Como o da Micamera. Io mi ispiro così, sfogliando il lavoro di altri e cercando di rielaborare qualcosa di mio. 

Hai citato più volte Instagram, da fotografa professionista cosa pensi delle piattaforme digitali e dei social? 

Bisogna saperli usare con intelligenza. Io all’inizio non avevo nemmeno Instagram, soltanto Facebook e il mio sito personale. Poi ho pensato che potesse offrire delle opportunità e ho cominciato a seguire conoscenti e fotografi che potessero ispirarmi, non quelli che postano le foto del cane o del gatto, però. Non seguirò mai un profilo con foto brutte e alcuni miei amici si offendono per questo. Instagram è un social di immagini, di foto, e permette di essere curiosi, di scoprire artisti di grande talento che altrimenti non si avrebbe modo di conoscere.  

The Bloody Beetroots live a Torino, 2019, foto di Chiara Mirelli.

Quale episodio nel tuo percorso ritieni sia stato più formativo per la tua crescita personale?

I quattro anni in cui ho lavorato come assistente da Condé Nast, per testate come GQ o Vanity Fair. Prendevo due lire, una miseria, ma ogni giorno avevo la possibilità di assistere un fotografo diverso e di imparare da tutti qualcosa di nuovo. Ho imparato non solo la tecnica ma anche e soprattutto come muovermi sul lavoro, come misurare le parole e comportarmi nei confronti del cliente, del redattore e dello stylist. È stata un’esperienza molto formativa sia professionalmente che umanamente: con alcune ragazze, all’epoca stagiste e ora direttori, vice-direttori moda, stylist, giornaliste, siamo tuttora amiche e collaboriamo.

Perché hai deciso di concentrarti sul mondo della musica indipendente?

Amo la musica. Per me è sempre stato un elemento centrale, una passione che mi ha accompagnata per tutta la vita. Già a dodici anni registravo in cassetta la classifica americana dei cinquanta dischi settimanali dalla radio, ero proprio fissata.

Quando ho iniziato a scattare foto, i concerti erano i soggetti a me più vicini: partecipavo a eventi musicali e chiedevo ai musicisti di lasciarsi fotografare. Quella del concerto era ed è tuttora un‘atmosfera affascinante: le luci, l’allure del cantante…

I Coma Cose, 2022, foto di Chiara Mirelli.

A tal proposito… c’è un artista o un gruppo che hai sempre sognato di immortalare?

Ho sempre voluto rappresentare Erykah Badu, quindi un’artista molto lontana dalla musica italiana. É stato poi per me un onore poter fotografare Battiato: un genio. Mi hanno chiamata per fare le foto stampa e anche i tour nei teatri con l’orchestra ed ero consapevole di essere vicina a una mente così acuta che mi sentivo imbarazzata. Inoltre, per passione lavoro con i Calibro 35, di cui sono una grande fan e con cui ho scritto anche un bel legame di amicizia, e i Ministri. In generale, sono affascinata dalla genialità e dall’impegno, piuttosto che dalla fama: apprezzo il talento di coloro che, pur rimanendo poco conosciuti, sanno per esempio comporre la base di un’orchestra. 

Franco Battiato, 2015, foto di Chiara Mirelli.
Calibro 35, 2023, foto di Chiara Mirelli.

Fino ad ora abbiamo parlato di eventi, ma come professionista ti occupi anche di shooting in studio. Cosa distingue gli scatti in studio da quelli fatti durante i live? Quali preferisci?

Sono due cose completamente diverse. Idealmente preferisco farle entrambe, a condizione di poter rappresentare il live a modo mio e raccontare il camerino, quei momenti privati dove l’artista si lava i denti in mutande. Il mio obbiettivo è sempre quello di rendere umana la superstar e raccontare la persona in carne ed ossa che prima di salire sul palco si fa la barba, si sistema i capelli, si agita persino. Adoro anche il dopo concerto, quando è tutto finito e puoi vedere il sudore, la fatica della serata. Le foto in studio sono invece più costruite, ma tento sempre di cogliere i momenti in cui emerge la persona autentica, rilassata, spettinata, slabbrata. 

Nei tuoi scatti cerchi infatti sempre di cogliere la persona dietro l’icona, in che modo riesci a raggiungere questa sorta di “demistificazione”?

Chiacchiero! Cerco di comportarmi normalmente: per me che io abbia davanti il cantante, il calciatore o la casalinga di Voghera non cambia niente. Cerco un argomento di conversazione che non sia la musica con il musicista o lo sport con lo sportivo, un terreno comune dove possiamo essere allo stesso livello, come la cucina. Il mio intento è proprio cogliere la persona dietro l’icona, dietro il ruolo e la fama che la circonda, e renderla nel modo più naturale possibile. Per questo cerco di comportarmi con tutti allo stesso modo, senza distinzioni, prendendomi perfino un pizzico di confidenza di troppo, senza, però, spingermi oltre: devono sentirsi a loro agio altrimenti la foto non li rappresenta e non la scelgono. 

Irama, 2017, foto di Chiara Mirelli.
Ben Harper, 2011, foto di Chiara Mirelli.

Della tua esperienza colpisce come sei riuscita a rendere una passione una professione. Hai sempre saputo che ce l’avresti fatta o hai avuto momenti in cui hai pensato di arrenderti?

La mia è stata una scelta. Ho frequentato ragioneria e poi ho studiato legge, quindi avevo una preparazione completamente diversa. A ventun anni ho deciso che avrei provato a diventare fotografa e ho rincominciato a studiare, prima alla Bauer, poi alla Civica, e a dedicarmi alle discipline artistiche che mi mancavano. Era ciò che volevo fare e, una volta terminati gli studi di fotografia, ho cominciato a lavorare come assistente per potermi mantenere. Ho preferito fare la gavetta per cinque anni assistendo altri fotografi per imparare tutto quello che potevo da loro, piuttosto che dirottarmi verso altri lavori che mi avrebbero distratta. Piano piano mi sono costruita un portfolio e ho cominciato a essere chiamata per il mio lavoro; è stato a quel punto che ho capito di avercela fatta. Il problema del settore creativo è l’incertezza, la mancanza di una continuità, di una stabilità: ci sono giorni in cui non ho un lavoro fissato, aspetto che il telefono squilli e che qualcuno mi chiami. Sono molti i momenti in cui cominci a dubitare, a mettere in discussione di potercela fare, e pensare alle spese, al mutuo, alla casa, ma bisogna essere persistenti. L’importante è evitare di aspettare che le cose accadano, ma andarsele a cercare. È un continuo migliorarsi, aggiornare il portfolio e il sito, bussare a più porte possibili senza aspettare che siano gli altri a chiamare te.  

Che consiglio daresti a chi come te insegue il sogno di lanciarsi nel mondo dell’arte armato soltanto di una fortissima passione? 

Di sbattersi! Studiare, fare gavetta, ossia fare da assistente a più artisti possibili così da imparare da diversi professionisti. Inoltre di insistere: se hai un focus particolare, informati, cerca come poter fare le cose e prova a farle. Nessuno verrà mai a prenderti se rimani seduto sul divano a guardare Netflix. Bisogna muoversi, uscire, provare. Ti diranno di no e tu ci riproverai, manderai altre email, farai tutto quello che puoi. Infine di fotografare! Scattare, scattare, scattare, per costruirti un portfolio e farti conoscere, altrimenti non sarai mai un fotografo. 

Cover di ‘Pezzo di Cuore’, singolo di Emma Marrone e Alessandra Amoroso, 2021, foto di Chiara Mirelli.