Un viaggio dalla psicologia al cinema tra Palermo, Los Angeles e Roma

Il regista Alessandro Aronadio si racconta in un’intervista a Not Yet, svelando i temi e le emozioni della sua produzione che ha saputo raggiungere il cuore di cinquanta Paesi

Abbiamo incontrato Alessandro Aronadio, regista e sceneggiatore siciliano, per farci raccontare del suo percorso: dalla laurea in psicologia, alla sua esperienza formativa in California nel mondo del cinema, fino ai suoi progetti più recenti. Il suo secondo lungometraggio, ‘Orecchie’, viene presentato nel 2016 al Festival del Cinema di Venezia ricevendo diverse candidature e vincendo una ventina di premi. Mentre tra le collaborazioni più importanti in campo cinematografico ricordiamo: ‘Che vuoi che sia’ di Edoardo Leo, ‘Classe Z’ di Guido Chiesa e ‘Gli uomini d’oro’ di Vincenzo Alfieri, per citarne alcune. Aronadio ha partecipato inoltre alla creazione di videoclip di successo nel settore musicale, come quello di ‘Brain’ dei Father Murphy o lo speciale per E! Entertainment dedicato alla band dei REM. Il suo ultimo lavoro cinematografico, ‘Era ora’, è la pellicola italiana che ha raggiunto venti milioni di spettatori in tutto il mondo. Professionista pluripremiato e con un bagaglio di esperienze decennale, non resta che abbandonarsi alle sue stesse parole per entrare nella mente di un regista contemporaneo e farsi ispirare…

Alessandro Aronadio.

Hai studiato psicologia, cosa ti ha spinto successivamente a orientarti sul mondo del cinema?

È vero, mi sono laureato in Psicologia, ma è un titolo che non ho mai sfruttato come professione. Per me la psicologia è sempre stata una passione, proprio come il cinema, un mondo su cui da giovane non ero particolarmente orientato in senso professionale, dal momento che nessuno nella mia famiglia ne faceva parte e Palermo è una città in cui avere successo non è facile. Il mio amore per il grande schermo è iniziato da bambino, mio padre infatti mi faceva vedere molti film e mi piaceva guardarli, ma mai avrei pensato di arrivare a fare il regista. È stato verso la fine dei miei studi universitari che ho cominciato a occuparmi di cinema, tanto che ho scelto di fare una tesi su un argomento che potesse unire questo ambito e la psicologia: ‘Lo strano caso del dr. David e di Mr. Cronenberg, saggio sul doppio nel cinema’.

Ti è stata assegnata poi una borsa di studio Fulbright che ti ha permesso di partecipare a un master in regia cinematografica alla Los Angeles Film School. Ci puoi parlare di questa esperienza?

All’inizio non sapevo ciò che mi avrebbe aspettato. Conoscere gli Stati Uniti partendo da Los Angeles è una follia perché ci si trova di fronte a una città completamente diversa da ciò che siamo abituati a vedere in Europa, come affermò Fellini: “Sono andato tre volte a Los Angeles e non l’ho mai trovata!”.
Sono arrivato in America in un periodo molto particolare: era trascorso poco più di un mese dall’11 settembre, sembrava che il tempo fosse sospeso e nessuno sapeva realmente cosa aspettarsi per il futuro. Nonostante ciò, rispetto ad altre città statunitensi, in California si respirava un clima più sereno.
È stata un’esperienza molto bella, durata poco più di un anno. Nella mia classe c’erano studenti provenienti da tutto il mondo: vedere persone di Paesi così distanti lavorare insieme in un momento in cui c’era tanta diffidenza nei confronti del diverso era davvero un bel segnale.
Grazie allo stile americano con l’approccio hands on, poca teoria e tanto lavoro pratico, ho imparato moltissimo in poco tempo. Avevo venticinque anni ed era appagante sentirsi elogiare da insegnanti famosi, alcuni di loro erano perfino stati premiati agli Oscar: per noi è stata un’emozione unica. Mi colpiva molto la loro umanità perché avevano un atteggiamento molto più friendly rispetto ad altri personaggi molto meno noti che in altri contesti se la tiravano di più. Penso che questo loro modo di fare sia da prendere come esempio: tanto entusiasmo e una semplicità che, a mio parere, non è un difetto. Troppo spesso, in società, siamo vincolati da mille sovrastrutture legate alla cultura o alla storia che ci appesantiscono molto, soprattutto nelle relazioni.

Edoardo Leo, Giuseppe Battiston e Margherita Buy in un frame tratto dal film ‘Io C’è’ di Alessandro Aronadio.

Mi sorge spontaneo chiederti quanto pensi sia stata utile la laurea in psicologia per l’analisi e l’approfondimento della mente umana e dei comportamenti delle persone?

Studiare psicologia offre molti spunti per scrivere le sceneggiature e provare ad addentrarsi nella mente dei personaggi, inoltre, possiamo dirlo, è utilissima nel cinema, dove spesso ci si trova di fronte a colleghi molto particolari, perché, come si suol dire “gli attori sono dei pazzi necessari”, necessari al mondo, alla società in un mestiere che richiede non solo una gran faccia tosta, ma anche una certa incoscienza.

Ti caleresti mai nei panni dell’attore?

Più volte, dopo aver letto le sceneggiature, mi hanno chiesto se volessi fare l’attore magari interpretando una parte nei miei film, come nel caso di ‘Orecchie’, tuttavia non ho accettato: non penso sia un ruolo che mi si addica. 

Frame tratto dal film ‘Orecchie’ di Alessandro Aronadio.

Recentemente è uscito il lungometraggio ‘Era ora’, visibile su Netflix, che per due settimane è stato il film non in lingua inglese più visto al mondo. Che soddisfazione hai provato? A cosa è dovuto questo successo? Com’è nata l’idea di questo film?

Sicuramente tutto il successo che la pellicola ha riscontrato non era affatto previsto, perché fare questi numeri con una commedia italiana è difficile. Con questo film siamo andati nella top ten di più di cinquanta Paesi e dalle ultime notizie emerge che è stato visto da venti milioni di persone. Forse ha avuto così tanto successo perché ha preso spunto da un momento in cui il tema del tempo riguardava un po’ tutti. ‘Era ora’ è nato ed è stato scritto durante il lockdown e trasuda i pensieri, le domande, i dubbi, i propositi che le persone si possono fare quando gli viene chiesto di mettere il tempo in standby.
Io e lo sceneggiatore Renato Sannio ci trovavamo in una situazione unica: eravamo chiamati a scrivere di un personaggio il cui tempo correva velocissimo saltando di anno in anno, in un momento in cui, invece, il nostro tempo era fermo. Avevamo due esperienze diametralmente opposte, noi e i nostri personaggi, ma entrambi vivevamo con la sensazione che il tempo ci venisse rubato.
Il film è uscito più o meno due anni dopo questa tragica esperienza e porta dentro di sé una riflessione su un tema comune a tutti, almeno per quel che riguarda l’Occidente. Ricordo che è stato mosso un commento proprio in merito a questo, quando il film è salito nella top ten in Egitto: è stato definito un classico esempio di chi vive “all’occidentale”. Penso che tutto ciò sia vero: la nostra è una cultura che tende alla sovrapproduzione, al fare più cose nel minor tempo possibile, che porta a produrre, ma non a essere felici.
Oltre a ciò, io volevo girare una romantic comedy, se ne vedono pochissime oggi in Italia e questo film presenta il tema della coppia nella sua evoluzione: anche questo è molto importante perché la storia di una relazione è sempre la combinazione tra due persone e il tempo. A volte, come accennavo prima, nel produrre film di questo genere dove si parla anche di sentimenti, si corre il rischio di cadere nel melenso o nel retorico.
Negli ultimi anni è sempre più comune la tendenza ad associare il linguaggio dell’uomo furbo e colto al cinismo: questa associazione di idee non mi ha mai convinto tanto perché mi sembra soltanto un viatico all’infelicità.
Ci tengo a raccontare questo aneddoto che mi ha molto colpito: un uomo dalle Hawaii mi ha scritto dicendo che non parlava con suo figlio da due anni e dopo aver visto il film è scoppiato a piangere e ha deciso di scrivergli una lettera. Questo per me significa riuscire a toccare un tema che riguarda tutti, ciò che accade quando si parla di sentimenti e di relazioni umane.

Edoardo Leo e Barbara Ronchi in un frame tratto dal film ‘Era Ora’ di Alessandro Aronadio.

Quest’opera viene definita una commedia sul tempo, come hai affermato anche tu stesso, tempo che il più delle volte si mostra vigliacco. Alla fine, però, come dimostra anche il film nei confronti di Dante, il tempo può assumere un’altra faccia, sembra essere più amicale. Allora ti chiedo, nel viaggio che è la vita, in che modo intendi il tempo? È più un antagonista o un alleato? 

Quando produco un film, imparo tante cose nuove sugli argomenti che tratto, ma in generale ho un rapporto molto ansioso con il tempo, perché ho sempre molta paura di perderne.
Tendo quindi generalmente a fare molte cose, non necessariamente per produrre, ma perché lo trovo necessario.

La tua vita è ricca di tante esperienze importanti: quando è stato il momento decisivo, se mai c’è stato, in cui hai capito che finalmente ti venivano riconosciuti il duro lavoro e il talento?

La prima di ‘Era ora’ all’Auditorium di Roma è stato un momento molto bello e significativo per me: la sala era sold-out una settimana prima dell’evento, c’erano mille persone e alla fine c’è stato un applauso eterno, otto minuti e mezzo, per l’esattezza.
Una cosa che mi ha fatto pensare a una svolta nel mio percorso è stata la prima al Festival di Venezia per il mio film ‘Orecchie’ uscito nel 2016, nato per essere iper-indipendente, girato in tre settimane e al quale sono legatissimo. È una pellicola molto personale e il fatto che sia stato accolto con tanto entusiasmo, mi ha dato grande gioia.

Edoardo Leo e Barbara Ronchi in un frame tratto dal film ‘Era Ora’ di Alessandro Aronadio.

Come abbiamo già detto, molti sono i progetti a cui hai lavorato sia in qualità di regista, che di sceneggiatore, e hai dunque una vasta produzione alle spalle, ad oggi invece, stai lavorando a nuovi progetti che ti piacerebbe condividere con i nostri lettori?

Sto scrivendo varie cose, anche per altri registi, ma non posso svelare ancora nulla nello specifico: posso soltanto dire che sto lavorando a molti progetti interessanti. 

Data la tua preziosa esperienza professionale, se potessi dare un consiglio a un artista alle prime armi che voglia percorrere i tuoi stessi passi, cosa gli diresti? Esiste qualcosa che non deve mai mancare a chi vuole praticare questo mestiere?

Come prima cosa, sicuramente, è importantissimo avere tenacia. Credo che, in questo mestiere, conti più del talento, perché è facile che le sconfitte si trasformino in vittorie, che i “no” diventino dei “sì”. Nonostante le avversità, la tenacia porta a stringere i denti, ad andare avanti e guadagnarsi così il proprio posto.
Penso di essere la dimostrazione che, se una cosa la vuoi fare, devi stringere i denti e provarci davvero.

Diletta Mazzitelli, nata a Modena, laureata in Comunicazione e media contemporanei per le industrie creative alla facoltà di Parma. Laureanda in linguistica generale, lavora nel campo dell’educazione negli istituti secondari di secondo grado. Segue laboratori teatrali come attrice, e coltiva le altre passioni in cinema, scrittura e canto. Collabora saltuariamente come redattrice di contenuti editoriali e digitali per un’agenzia di comunicazione e come giornalista al Not Yet magazine. Il suo più grande sogno è quello di raccontare storie che appassionino tanto da emozionare chi legge, facendo vibrare le corde più intime dell’anima.

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