Mattia Fiumani: “Cominciando a vedere le cose da una prospettiva diversa, improvvisamente ho aperto gli occhi”
Local Bizzarro e il Conero Film + ADV Festival: i non-luoghi che hanno portato Mattia Fiumani a riscrivere il suo linguaggio artistico mantenendo un approccio sostenibile nei confronti dei luoghi, delle persone e della creatività
Quella con Mattia Fiumani è stata una chiacchierata che ha avuto come sfondo un cielo limpido, un sole carico, e come cornice il cinguettio instancabile degli uccellini. Può sembrare un dato di poco conto, ma già quest’immagine è auto-esplicativa rispetto a ciò che sembra alimentare la necessità di Mattia di mantenere viva l’autenticità e la trasparenza, non solo in ciò che fa e dice, ma anche e soprattutto, nel suo modo di camminare per il mondo.
Mattia, che ha trovato sé stesso e il proprio coraggio vivendo, esplorando, e lanciandosi nei luoghi e nel vuoto con l’istintualità che caratterizza solo le personalità assetate di meraviglia, è Architetto di formazione e giramondo di indole. Alimenta infatti la sua passione per il cinema durante gli anni di studio al Politecnico di Losanna, in Svizzera, dove lavora in una piccola cineteca come proiezionista. A tal riguardo, Mattia afferma:

“Se da teenager ero orientato più sui film di David Lynch, durante gli anni di architettura il mio interesse si è diretto verso quelli fantascientifici. Avere accesso alla cineteca in Svizzera, mi ha permesso di passare pomeriggi interi a guardare film d’autore e farmi, così, una cultura”.
– Mattia Fiumani

Il primo grande salto nel vuoto che lo porterà a virare rotta e a intraprendere il percorso da regista si colloca dopo la laurea in architettura, quando decide di proseguire gli studi in Filmmaking presso la New York University. Questa audacia fa sorgere una domanda:
Cosa ti ha fatto cambiare rotta?
Credo che il punto di svolta per me sia stato Berlino: mi ci sono trasferito fresco di studi a New York, e ho cercato lavoro come architetto selezionando gli studi che si occupassero anche di scenografia. Il cinema è diventato un lavoro così. Inizialmente lavoravo per studi ibridi di architettura e scenografia, poi ho cominciato a lavorare come scenografo freelance. Berlino mi ha aiutato perché è una città che accoglie questo sistema ibrido e all’interno di questa flessibilità è nata la mia carriera. Dopo un paio d’anni ho cominciato a lavorare in una televisione come regista di dirette live e contemporaneamente mi occupavo della regia di videoclip. Quindi nell’arco di tre anni, sempre a Berlino, è avvenuta questa transizione organica dall’architettura al cinema.
Dall’esperienza berlinese la sua carriera esplode e Mattia comincia a ricevere proposte in giro per il mondo. Realizza così documentari, videoclip e cortometraggi di spessore, incrementando sempre più una visione eterogenea e internazionale, lasciando spazio a contaminazioni di ogni genere. Non tardano ad arrivare i primi riconoscimenti, come la Best Director Honorable Mention al Los Angeles Film Awards e la nomination come Best Short presso gli Independent Shorts Awards, entrambe per il cortometraggio ‘Notebook’ realizzato in collaborazione con il rapper Busdriver.
Il suo progetto principale, quello in cui arriverà a credere visceralmente, però, deve ancora vedere la luce. Dopo quindici anni all’estero e un anno a Milano, decide di tornare dove tutto era iniziato e dove lui era cresciuto: nelle Marche. È il 2021 e Mattia sente crescere dentro di sé il desiderio di crearsi un luogo fisico in cui poter sprigionare la sua essenza creativa. Fonda così, nel parco del Conero, il collettivo Local Bizzarro: una comunità internazionale di filmmaker e una società di produzione che riunisce artisti di ogni provenienza e formazione con l’unico obiettivo di promuovere uno scambio perpetuo di idee e un florido circolo virtuoso. È questo il luogo che ospita, per la prima volta nel 2023, il Conero Film + ADV Festival, un ritiro creativo nato dalla collaborazione tra Local Bizzarro e MontanariPR. L’obiettivo principale è sensibilizzare sulle pratiche di sostenibilità nelle industrie del cinema e della pubblicità in modi che comprendono, ma si spingono anche oltre, l’accezione ambientale che solitamente si è portati a pensare. Al centro di questo progetto aleggia l’anima di chi l’ha prima immaginato e poi, con grande coraggio e fiducia, portato alla vita. La passione è limpidamente dimostrata dalle parole di Mattia Fiumani che ci ha permesso di calare una lente di ingrandimento sul suo percorso e sui suoi progetti, parlandocene con il cuore in mano.

Mattia, tu sei un giramondo: hai vissuto a Losanna, New York, Berlino, Los Angeles, Il Cairo, le isole Fiji. Il tuo porto sicuro, però, sembri averlo concretamente costruito nelle Marche, a casa tua. Perché hai deciso di tornare in Italia?
Ci sono stati eventi personali che mi hanno portato a passare più tempo qui, in Italia. Per quindici anni ho girato e vissuto in varie città, e dopo tutti questi giri mi sono reso conto che quello che volevo fare era crearmi il mio spazio, forse il desiderio intrinseco di ogni artista. Il mondo che volevo e voglio creare ce l’ho un po’ dentro e, in realtà, una base o l’altra poco cambia. Penso che ogni luogo possa solo giovare della creatività di qualcuno che si immagina un mondo diverso. Non mi sono trovato a pensare “Qui manca proprio questo, lo voglio fare!” o “Questo è il posto ideale”, mi sono semplicemente reso conto che era indifferente dove avrei vissuto e che quello che volevo fare potevo farlo ovunque. Mi sembrava sensato creare qualcosa di bello nel posto in cui ero cresciuto e successivamente mi sono accorto, mettendo in piedi il progetto Local Bizzarro, che le Marche hanno un potenziale inesplorato. Ci sono tante location diverse tra loro a livello naturale, è una regione che non ha paesaggi estremi ma con un piglio registico e con un po’ di creatività si possono ottenere tanti set diversi. Soprattutto, tutti i luoghi si trovano a un’ora o al massimo due di distanza. Questo aspetto è importantissimo e si lega all’approccio di Local Bizzarro, che vuole essere una casa di produzione sostenibile. Uno degli sprechi maggiori a livello di produzione cinematografica è il trasporto, quindi ho pensato che già per questa enorme risorsa naturalistica si potesse riuscire a tagliare nei consumi. Avere le location vicine è un grande aiuto per ottimizzare le produzioni, ed è un processo a cui stiamo ancora lavorando.
Denoto un certo coraggio e determinazione. Quanto credi che questi due elementi siano stati fondamentali per portarti dove sei oggi?
Hai perfettamente ragione, c’è voluta una buona dose di coraggio. Diciamo che lanciarsi è un po’ qualcosa che credo debba far parte del percorso di ognuno di noi. Sicuramente, se avessi fatto un ragionamento logico e razionale, questo progetto non sarebbe mai nato. Mi hanno dato coraggio le persone che hanno appoggiato quest’idea, che mi hanno fatto pensare che non fosse poi così stupida. Poi e cose sono nate un po’ alla volta: fai un passo e vedi che c’è gente che ti appoggia, ne fai un altro e vedi che ce ne sono ancora di più che credono in te. La cosa che mi ha dato più forza è stata soprattutto vedere che le persone facevano il progetto proprio: in qualche modo lo riconoscevano come qualcosa a cui volevano donare il proprio tempo, appoggio, e concreto investimento. Si è creata un po’ una squadra, un collettivo di persone. Quello che credo infine abbia veramente aiutato il processo è stato avere una sede, questo casolare sul Conero che si chiama Villa Giuggiola. Quando c’è uno spazio fisico nel quale le persone possono unirsi e aiutare si sente davvero la differenza. Al giorno d’oggi crediamo che tutto sia possibile da remoto, e in parte è vero, però finché le persone non condividono uno spazio, lo riempiono con le proprie intenzioni e i propri desideri, rimane difficile trovare quella coesione organica che fa nascere il coraggio dentro di noi per fare un passo in avanti e realizzare i sogni apparentemente irrealizzabili.

Lavorare in un collettivo è sicuramente una grande risorsa e offre la possibilità di uno scambio incessante di idee e contaminazioni artistiche. Cosa ti ha spinto a voler lavorare con questa impostazione?
L’impostazione collettiva, come dici tu, porta ad una contaminazione. Serve un’apertura, quindi una forma di coraggio artistico in cui si rimane aperti a quello che può nascere da un confronto continuo. Ci sono stati momenti in cui eravamo in più persone e altri momenti in cui invece mi ritrovavo un po’ solo. È sempre un po’ difficile riuscire a tenere in piedi lo stesso gruppo di persone ma il festival ha aiutato molto perché durante quei tre, quattro giorni, viene gente da ogni dove che riconosce quello che stiamo facendo; così si creano nuovi legami anche con chi non vive sul territorio, ma comunque propone idee. Grazie al festival abbiamo ricevuto molte proposte per fare film, documentari e progetti vari che stiamo già seguendo, anche con registi che vengono da fuori. Il confronto è sicuramente una necessità se ci si vuole continuare a rinnovare.
C’è anche da dire che nel contesto internazionale rimaniamo una realtà anomala perché abbiamo deciso di incentrare tutto sulla sostenibilità, e quelle del cinema e della pubblicità non sono industrie che si prestano particolarmente ad un approccio sostenibile. Non si tratta di mancanza di volontà, ma c’è proprio un sistema – forse più nel settore pubblicitario rispetto a quello cinematografico – che si basa sul consumismo, quindi risulta davvero difficile approcciare il cliente con una strategia sostenibile. Però questa è la nostra volontà e ci imponiamo di rispettarla, augurandoci che essendo così ostinati a voler fare le cose in un certo modo, poi ci scelgano anche per questo.

Come ti immaginavi Local Bizzarro all’inizio?
Innanzitutto c’è stato il desiderio di creare una comunità di artisti e creare uno spazio. Muovendomi spesso mi sono reso conto che la forza delle città nelle quali vivevo era proprio la presenza di gruppi di artisti e filmmaker: era così che nascevano le idee e i progetti. Questo clima l’ho vissuto in particolare a Berlino, dove con degli amici si era formato un collettivo molto eterogeneo, e ho notato che in quel contesto comunitario che si era improvvisamente creato giravano idee, progetti, e ci si fomentava a vicenda nel fare le cose in modo diverso. Questo confronto lo avevo trovato estremamente importante nella vita di un creativo e avevo la voglia di ricreare questo tipo di ambiente. Poi la sostenibilità è arrivata perché vivendo sul Conero e lavorando al casolare e ai dieci ettari di terra che ci sono intorno, ho avuto un po’ un’epifania personale in cui mi sono riavvicinato alla natura. Questo mi ha portato a rivedere retrospettivamente il lavoro che stavo facendo e ho capito, informandomi e studiando un po’, quante cose potevano essere cambiate in questo settore. Avevo anche vissuto esperienze all’estero in cui ero rimasto colpito dagli sprechi, e cominciando a vedere le cose da una prospettiva diversa, improvvisamente ho aperto gli occhi.
Il Conero Film + ADV Festival si impegna a sensibilizzare a livello sociale, creativo e ambientale, in un contesto immersivo che già di per sé permette di calarsi nello spirito. Cosa credi che sia stato, per te, il motore principale: creare questo spazio o l’idea di fare la differenza e incentivare un cambiamento?
È stata un po’ una concomitanza di fattori tra il restauro di Villa Giuggiola, la nascita del progetto di Local Bizzarro che è antecedente alla casa, e la rigenerazione dei dieci ettari di terra. Questa riconnessione con la natura mi ha fatto capire che il progetto sarebbe stato connesso alla sostenibilità ambientale, poi il Festival ci ha dato delle nuove sfide: nella collaborazione con Niccolò Montanari, per esempio, abbiamo cominciato a riflettere sul significato della parola sostenibilità, che oggi è forse un po’ elusiva. È infatti un concetto filosofico che viene applicato quasi esclusivamente all’ambiente, quando invece essere sostenibili – dal mio punto di vista – significa riuscire a dare il massimo valore alle risorse che hai senza dovere fare out sourcing, quindi senza cercare risorse esterne. Penso sia, sostanzialmente, cercare di fare il massimo con quello che hai a disposizione e questo non riguarda solo la natura, ma anche le persone e il tipo di collaborazione che crei con queste. In ambito commerciale, noi registi ci troviamo spesso a dover sottomettere la nostra creatività alla vendita di un prodotto, quindi al consumismo. Per me, la sostenibilità creativa è la possibilità di avere una collaborazione più etica con i clienti e con i brand con i quali ci interfacciamo. È così che sono nati i tre pilastri: la sostenibilità ambientale, la sostenibilità creativa e infine la sostenibilità sociale, ovvero l’inclusività nel trattare temi che abbiano a che fare con il sociale e che alimentino anche una certa consapevolezza nel pubblico.

Un ambiente così internazionale e open-minded in un contesto rurale è sicuramente un’idea vincente per il tipo di sensibilità che vuoi sollecitare, ma comporta anche qualche rischio?
Le difficoltà ovviamente sono soprattutto logistiche, che è poi il motivo per cui i festival e gli eventi sono molto più semplici da organizzare in città, dove si trovano già infrastrutture alle quali appoggiarsi. Invece, facendo un festival all’interno di un parco naturale devi ovviamente occuparti di tanti aspetti, come il trasporto o l’alloggio. Detto ciò, il riscontro maggiore è il fatto che la gente si riconosce: dopo aver fatto lo sforzo di arrivare fino al Conero, in qualche modo si trova a condividere uno spazio con persone che, come loro, non sono capitate lì per caso ma lo hanno cercato. Quando hai una nicchia hai un pubblico che è devoto, che comprende e ama quello che stai facendo. Non è soltanto un trovarcisi per caso, un prendere quello che si può prendere e poi andarsene: i rapporti che si creano sono sinceri, ed è questo che intendiamo quando parliamo di sostenibilità creativa. Al festival non vengono solo registi o artisti, ma anche case di produzione, agenzie, clienti, brand. L’atmosfera che si crea è rilassata, il più trasparente e sincera possibile, e questo ha un riscontro anche nelle modalità: la gente sta seduta sul prato parlando e guardando il tramonto, senza la pressione del dover per forza strappare il numero di telefono a qualcuno. Questo è un settore frenetico dove a volte ci si trova risucchiati dalle dinamiche arriviste; invece, riportare le persone al motivo per cui hanno iniziato a fare quel lavoro, apre la possibilità di ricreare un rapporto più sincero con sé stessi. Il rischio, chiaramente, è quello di apparire un po’ elitari perché è un luogo poco conosciuto e fisicamente difficile da raggiungere, ma chi vuole esserci partecipa perché ha davvero capito quello che stiamo cercando di fare.
Ci racconti un po’ come funziona il festival?
Il festival è sostanzialmente diviso in due parti. La prima parte è il Creative Retreat: un ritiro creativo al quale partecipano i giurati e chi acquista il biglietto, e in cui si ha la possibilità di soggiornare in Hotel o nel Camping che organizziamo noi. Questo ritiro è durato un paio giorni nelle prime due edizioni, mentre quest’anno ne durerà tre: dal 4 al 6 settembre. Il 7 settembre, invece, ci sarà la giornata dedicata al festival che è il secondo capitolo: un evento aperto al pubblico al quale partecipano non solo gli addetti ai lavori ma anche persone che vengono a vedere i film. Al termine della giornata c’è la premiazione e la festa, ma la parte che preferisco di tutto il festival è quella dedicata ai panel e alle presentazioni: ci piace invitare persone che non siano necessariamente del settore. Quest’anno, per esempio, abbiamo avuto uno scienziato di materiali che è specializzato in biomimesi, e il confronto con questo professionista ci ha insegnato un nuovo modo per prendere ispirazione dalla natura. Sono nati confronti molto interessanti che hanno a che fare con l’organizzazione del lavoro, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, del modo in cui possiamo prendere ispirazione dalla natura. Questa è una sezione del festival alla quale tengo molto a livello personale e vorrei spingerla in varie direzioni nelle prossime edizioni, che non sia soltanto quella scientifica ma anche filosofica oppure legata all’economia. Credo, infatti, che sia necessario fare un passo indietro e chiederci cosa rende il nostro lavoro così importante e perché lo amiamo tanto, e a volte le domande vanno fatte fuori dal contesto più specifico della creazione settoriale. È esattamente questo che mi auguro che porti gli artisti a voler venire ad un evento del genere o ad avvicinarsi ad un progetto come Local Bizzarro, perché quello che spesso accade nelle città è una contaminazione un po’ sterile che finisce per essere più un copiarsi. Io, ad oggi, riesco a intuire se un lavoro è stato prodotto a Berlino, a Milano o a Londra, perché viene un po’ creato un linguaggio relativo al luogo. Invece, il Conero Festival e Local Bizzarro vogliono essere un non-luogo nel quale il linguaggio viene rimesso in discussione.

Cosa ti auguri per Local Bizzarro e il Conero Film + ADV Festival? Quali obiettivi vorresti raggiungere?
Il desiderio è che Local Bizzarro diventi un esempio per altre case di produzione. Noi promuoviamo anche una decentralizzazione, quindi mi auguro che questa possa esistere sempre di più: residenze creative in posti lontani dai soliti centri, realtà fuori dalle grandi città. Poi, ovviamente, mi auguro che Local Bizzarro diventi una casa di produzione in cui possano nascere collaborazioni sempre più significative e che quindi possano far crescere sia il festival che la casa di produzione stessa. Il festival è molto legato al territorio marchigiano, ma Local Bizzarro è più un progetto che si lega al territorio nel quale sta, che non deve essere per forza la regione Marche. È bello che ci siano tanti “Local Bizzarri” in giro per il mondo e che siano nei posti meno banali e più sorprendenti. Sarebbe bello riuscire un po’ a rompere l’oligarchia di un settore che è tutto arroccato nelle solite città e portare la gente a scoprire nuovi territori, nuove idee, nuove creatività e nuove storie. Il mondo, purtroppo, è troppo polarizzato intorno a quello che i media ci dicono che sia bello e di valore, quando invece è soprattutto viaggiando che ci si rende conto di quante storie ci siano da raccontare che non sono per forza all’interno di una capitale o di una metropoli.
Che consiglio daresti a chi vorrebbe lanciarsi in un’avventura come la tua e non trova il coraggio? Cosa ti ha spinto a buttarti e a rischiare?
Io consiglierei a tutti di viaggiare quanto più possibile. Un viaggiare, però, che non significa prendersi una settimana e vedersi un posto, ma vivere veramente nei luoghi per cercare di capire quanto possono influenzare le culture, o il modo in cui nasce un’idea. Non per forza poi bisogna tornare a casa come ho fatto io. Quello che auguro, sicuramente, è di dare valore alle persone più che ai luoghi. È importante anche non aver paura di creare qualcosa che non esiste ancora, anzi, credo sia quello il punto importante nella vita di una persona: trovare il coraggio per fare qualcosa che ancora non è stato fatto. Credo che sia qualcosa che non si rimpiangerà mai, un porto sicuro, perché sarà la concretizzazione di qualcosa che veniva da dentro e che abbiamo fatto con coraggio, e questo non si può rimpiangere. Ho capito che, nella vita, il coraggio spesso lo si trova allenandosi: è importante provare a trovarlo a piccole dosi, allenarsi a seguire l’istinto. C’è stato un momento importante della mia vita in cui non avevo molto tempo per prendere una decisione e qualcuno mi disse “ci sono momenti in cui devi seguire la pancia”. Questo consiglio l’ho seguito quasi per gioco ma poi mi sono accorto che ci ho preso gusto a seguire più la pancia che la testa, e il coraggio, delle volte, è soprattutto questo: seguire qualcosa che non ha delle fondamenta solide sulle quali basare una strategia, assumendoci dei rischi ed esponendoci al mondo.
