“Due estranei”: come uscire dal loop della violenza.

Riflessioni a cura di Matteo Bonfiglioli

“Due estranei” gode di un titolo provocatorio e calzante. In fondo, non c’è niente di più estraneo di vittima e carnefice. il titolo è anche accentuatamente ironico. Già, perché in questo cortometraggio del 2020 l’estraneità è negata in partenza da una struttura narrativa che condanna il suo protagonista a vivere in continuazione lo stesso giorno della sua vita – o meglio, la stessa tragica e insensata sorte -. 

La ripetizione è dunque alla base di quest’opera, vincitrice dell’Oscar al miglior cortometraggio nel 2021 e firmata da due semi-esordienti: lo sceneggiatore afroamericano Travon Free, abituato a toni comici e leggeri per la tv, e il più esperto e poliedrico Martin Desmond Roe, già avvezzo produttore e regista per il piccolo schermo. In fondo, il loop temporale è un escamotage suadente e inflazionato, soprattutto se si parla di commedia: film come “Io vengo ogni giorno”,”Palm Springs” e il cult “Ricomincio da capo” sono interamente giocati sull’assurdo e il surreale di un presente eterno che non si estingue mai, una cellula di esistenza dalla quale non si riesce ad evadere. Infatti, l’espediente dell’eterno ritorno è divenuto un vero e proprio asso nella manica per commediografi, pur rimanendo riferito esclusivamente allo sviluppo di un discorso ritmato e incalzante, oltre che di grande verve comica, piuttosto che in relazione al significato e al contenuto del racconto. 

La forza di “Due estranei” sta proprio nel rifiuto dei suoi autori di relegare questo elemento narrativo alla mera resa strutturale del prodotto, innestandolo sapientemente all’interno di una riflessione urgente sulla società. La coazione a ripetere, anche qui, parte da un contesto comico e leggero, ma si scolla dalla semplicità dell’incipit per immettere un dato drammatico, attuale, più che mai vero. 

La ripetizione della stessa morte sullo schermo provoca lo spettatore, lo interroga sull’insensatezza e al contempo lo espone all’assuefazione della violenza, mettendolo in guardia sulla facilità dell’indifferenza. È una catalogazione della stessa morte vista attraverso punti di vista diversi, in chiaro riferimento alla sconcertante facilità con cui l’abuso di potere degli agenti statunitensi ha portato all’uccisione di decine e decine di innocenti. L’identificazione che proviamo con Carter, in bilico tra l’immortalità e la condanna di una persecuzione a vita, ci pone nel dubbio che la questione sia un duello: come lui, iniziamo a chiederci se non sia necessario rispondere con la violenza o se la fuga e la resa abbiano ancora senso – è una sorta di estorsione di consapevolezza indotta -. 

La furia del poliziotto razzista, resa ancora più assurda dal suo dirompere in un contesto di commedia rosa, dai toni leggeri e color pastello rende ancora più ficcante la puntualità di un’opera simile nel contesto politico che stiamo vivendo. le proteste che hanno agitato gli Stati Uniti negli ultimi due anni, il movimento Black Lives Matter, la denuncia dei numerosissimi innocenti morti per mano di agenti di polizia sono il sostrato tematico sociale che caratterizza l’opera, senza però appiattirla in un semplice grido di denuncia. La straordinarietà di questo cortometraggio risiede proprio nel suo restituire la normalità di una vita qualsiasi e al contempo l’universalità di una devianza divenuta abitudine, pallottola dopo pallottola e giorno dopo giorno, senza che ci si capacitasse dell’assurdità di quanto avveniva. 

Il libro di James Baldwin che si scorge nella scena iniziale, appoggiato su un tavolino, è manifesto e insieme monito di quest’opera che sa essere politica ma d’intrattenimento, dolorosa ma ironica, di denuncia senza essere mai pietista. Travon Free e Martin Desmond Roe sono bravissimi nell’articolazione di un prodotto che riesce a giocare coi generi più distanti – dal racconto sociale, allo sci-fi, passando per la commedia – senza dimenticarsi di restituire un pensiero politico. Il loro è un esordio altisonante e coraggioso che si iscrive a pieno titolo nella politica espressiva di Netflix, da tempo impegnato a unire intrattenimento e sensibilizzazione (vedi, ad esempio, lo splendido “When they see us”). In fondo, “Due Estranei” parla proprio di questo: una possibilità di contatto tra ciò che ormai sembra antipodico, una promessa di perseveranza dell’egualitarismo e della parola, sulla violenza. 

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Matteo Bonfiglioli nasce a Modena a metà anni novanta. Allo scoccare del millennio impara a scrivere e si innamora del cinema e del teatro. È proiezionista, recensore, monologhista e fruitore seriale di ogni tipo di narrazione. Laureato all’Accademia di Belle Arti di Bologna in Cinema, Fotografia e Televisione e diplomato all’Università IULM di Milano in Drammaturgia e Arti del Racconto, scrive su diverse riviste di Cinema e Cultura. Continua a studiare e amare la finzione che parla della realtà.

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